martedì 8 luglio 2008

8 ETICA NELLE STORIE

Richard Rorty ha il pregio di parlare di temi continentali con un linguaggio da analitico. È uno dei pochi.
Secondo Rorty, le grandi idee filosofiche passano più attraverso la letteratura che attraverso i saggi di filosofia. Anzi, io direi più attraverso la narrazione, che oggi usa anche nuovi media.
La filosofia, quando vuole essere pratica, è per buona parte fatta di sentimenti: ad esempio la solidarietà e la simpatia con il resto dell’umanità, oppure la fiducia nel ragionamento e nel dialogo. Ebbene, è assai probabile che noi abbiamo imparato queste cose più da alcuni romanzi letti nell’infanzia che da saggi filosofici.
La cosa è convincete e coerente con le conclusioni cui ero già arrivato io. Un problema è il fatto che mi pare che Rorty (e io stesso) faccia più riferimento al romanzo ottocentesco che alla letteratura moderna. L’altro aspetto da aggiornare è, come dicevo, rappresentato dai nuovi media.
Forse, più che di romanzi occorrerebbe parlare di Chat e forum su internet, di Blog, o chissà di cos’altro.
Senza dimenticarsi il buon vecchio cinema. Nell’estate 2004 Umberto Eco è stato intervistato da Enrico Grezzi sui rapporti tra cinema e filosofia. Il risultato è un lungometraggio a camera fissa che dev’essere piuttosto noioso. Ma Repubblica ne ha fatto una recensione interessante il 4 luglio 2004. L’approccio è prevalentemente rivolto a come la filosofia può pensare il cinema (e dunque fondarlo). Ma c’è spazio anche per il contrario, più rortyano: come il cinema può fare filosofia.
L’articolista (Antonio Gnoli) naturalmente riconosce che ci sono autori tipicamente filosofici (Antonioni, Bergman, Rossellini, Godard, Wenders), ma dice di avere “l’impressione che la sola filosofia che il cinema possa realizzare sia quella involontaria”, citando piuttosto certe scene di Stan Laurel e Oliver Hardy, o di Buster Keaton, o di Hitchcock ( e perché non Chaplin?). “Come dire: la filosofia si posa dove meno te l’aspetti”. (La Repubblica 4 luglio 2004, pag 37).
La narrazione attraverso il romanzo continua comunque ad avere una sua importanza anche nel mondo attuale. Anzi, forse più che mai. Frederic Beigbeder, ragazzo terribile della letteratura francese, esce in questi giorni con un romanzo sugli ultimi attimi di vita di un padre e dei suoi due figli nel ristorante al centosettantesimo piano del World Trade Center l’ 11 settembre (Windows on the world, Bompiani). Nelle interviste sul libro, che sta scatenando feroci discussioni, lo scrittore si dice più che altro stupito del fatto che nessuno in questi due anni e mezzo abbia pensato di scrivere un romanzo sull’ 11 settembre prima di lui. E spiega su L’Espresso (n. 27 dell’ 8 luglio ’04, pag. 110): “Gli scrittori si sono tirati indietro per paura, o forse per rispetto (…) Perché non dovrei raccontare la storia più mostruoso e più spettacolare a cui abbia mai assisitito?” L’intervistatore suggerisce: “Forse perché la televisione ce l’ha già mostrata sotto tutte le angolature?”
Ecco la questione è proprio questa: il romanzo può arrivare là dove la televisione non arriva, può stare vicino all’angoscia di un uomo che muore, può essere infinitamente più realista proprio perché inventato. Può scendere nel corpo vivo delle idee e delle emozioni. Può alternare, come fa Frederic Beigbeder probabilmente imitando il modello ben noto di Kundera, le vicende dei protagonisti con le riflessioni dell’autore. E in effetti Kundera è veramente uno scrittore filosofico.

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